martedì 22 aprile 2014

Resistere è creare









Stephane Hessel
Indignez-vous !
93 anni. E’, un po’, come un’ultima tappa. La fine non è più così lontana. Un’occasione da approfittare per ricordare quello che è stato alla base del mio impegno politico: gli anni della resistenza ed il programma elaborato, sessantasei anni fa, dal CNR (Consiglio Nazionale della Resistenza) ! Dobbiamo a Jean Moulin, all’interno del Consiglio, la capacità di raccogliere tutte le componenti della Francia occupata, i movimenti, i partiti, i sindacati, per proclamare la loro adesione alla Francia combattente ed al solo capo che questa riconosceva: il generale De Gaulle. Da Londra, dove avevo raggiunto il generale De Gaulle nel marzo del 1941, apprendevo che questo Consiglio aveva messo a punto un programma, l’aveva adottato il 15 marzo 1944, proposto per la Francia liberata un insieme di principi e di valori sui quali si basa la moderna democrazia del nostro Paese.

Di questi principi e di questi valori, noi, oggi, abbiamo più che mai bisogno. A noi compete di vegliare, tutti assieme, affinché la nostra società resti una società di cui possiamo essere fieri: non questa società di “sans-papiers”, di espulsioni, di sospetti verso gli immigrati, non questa società dove si rimettono in causa le pensioni, i diritti acquisiti della Previdenza Sociale, non questa società in cui i media sono nelle mani dei ricchi, tutte cose su cui noi ci saremmo dovuti cautelare se fossimo stati, veramente, gli eredi del CNR.

A partire dal 1945, al termine di un dramma atroce, le forze migliori presenti nel CNR si librano verso un’ambiziosa resurrezione. Ricordiamolo, è allora che fu creata la Previdenza Sociale così come la voleva la Resistenza e come il suo programma lo definiva: “Un piano completo di Previdenza Sociale, tendente ad assicurare a tutti i cittadini i mezzi di sussistenza, in tutti quei casi in cui non sono più capaci di procurarseli attraverso il lavoro”; “una pensione che permetta ai vecchi lavoratori di finire dignitosamente i lori giorni”. Le fonti energetiche, l’elettricità ed il gas, le miniere di carbone, le grandi banche vengono nazionalizzate. E’ quello che il programma ancora preconizzava ovvero “il ritorno allo stato dei grandi mezzi di produzione monopolizzati, frutto del lavoro comune, delle fonti energetiche, delle ricchezze del sottosuolo, delle compagnie di assicurazioni e delle grandi banche”; “l’instaurazione di una vera democrazia economica e sociale, espellendo, dalla direzione dell’economia, le grandi feudalità economiche e finanziarie”. L’interesse generale deve primeggiare sull’interesse particolare, la giusta condivisione delle ricchezze prodotte primeggiare sul potere del denaro. La Resistenza propose “un’organizzazione razionale dell’economia che assicuri la sudditanza degli interessi particolari all’interesse generale e si affranchi dalla dittatura professionale instaurata sull’immagine degli Stati fascisti”, e il Governo provvisorio della Repubblica se ne fece testimone.

Una vera democrazia ha bisogno di una stampa indipendente; la Resistenza lo sa, l’esige, difendendo “la libertà della stampa, il suo onore e la sua indipendenza nei riguardi dello Stato, della potenza del denaro e delle influenze straniere”. E’ quello che dicono, ancora, le ordinanze sulla stampa, dal 1944. Ed è proprio questo che oggi è in pericolo.

La Resistenza faceva riferimento a “la possibilità, effettiva, per tutti i bambini francesi di beneficiare della più sviluppata istruzione” senza discriminazioni; ora, le riforme proposte nel 2008 vanno contro questo progetto. Alcuni giovani insegnanti, di cui io sostengo l’azione, sono arrivati fino al punto di rifiutarsi di applicarle e, per questo, hanno visto il loro stipendio amputato come punizione. Loro si sono indignati, hanno “disobbedito”, hanno giudicato queste riforme troppo lontane dall’ideale della scuola repubblicana, troppo asservite ad una società del denaro, incapaci di sviluppare lo spirito creativo e critico.

E’ tutta la base delle conquiste sociali della Resistenza che, oggi, è messa in discussione.

E’ l’indignazione la causa della resistenza

Si arrischiano a dirci che lo Stato non può più assicurare il costo di questi diritti sociali. Ma come può, oggi, mancare del denaro per prolungare queste conquiste quando la produzione di ricchezza è considerevolmente aumentata dalla Liberazione, periodo in cui l’Europa era tutta una rovina ? Altrimenti perché il potere finanziario, fortemente combattuto dalla Resistenza, non é mai stato così grande, insolente, egoista con i suoi propri servitori fin nelle più alte cariche dello Stato. Le banche, ormai privatizzate, si mostrano preoccupate più dei loro dividendi e degli altissimi emolumenti dei propri dirigenti che dell’interesse generale. Lo scarto tra i più poveri ed i più ricchi non è mai stato così importante; e la corsa al denaro, la competizione, mai così incoraggiata.

Il motivo di base della Resistenza era l’indignazione. Noi, i veterani dei movimenti di resistenza e delle forze combattenti della Francia libera, noi chiamiamo le giovani generazioni a far vivere, a trasmettere, l’eredità della Resistenza ed i suoi ideali. Noi diciamo loro: prendete il testimone, indignatevi ! I responsabili politici, economici, intellettuali e l’insieme della società non debbono tirarsi indietro, ne lasciarsi impressionare dall’attuale dittatura internazionale dei mercati finanziari che minacciano la pace e la democrazia.

Auspico che tutti abbiano il loro motivo di indignazione. E’ prezioso. Quando qualche cosa vi indigna come io sono stato indignato dal nazismo, allora si diventa militanti, forti ed impegnati. Ci si ricongiunge a questa corrente della storia e la grande corrente della storia si alimenta grazie a ciascuno di voi. E questa corrente va verso una maggiore giustizia, una maggiore libertà ma non quella libertà incontrollata della volpe nel pollaio. Questi diritti, di cui la Dichiarazione Universale ha redatto il programma nel 1948, sono universali. Si incontrate qualcuno che non ne possa beneficiare, lamentatevene con lui ed aiutatelo a conquistarli.

Due visioni della storia

Quando cerco di comprendere le cause del fascismo, che ci ha reso invisi per colpa sua e per Vichy, io mi dico che i latifondisti ed i capitalisti, con il loro egoismo, hanno avuto una terribile paura della rivoluzione bolscevica. Loro si sono fatti guidare dalle loro stesse paure. Ma se, oggi come allora, una minoranza attiva si alza, si solleva, questo sarà sufficiente: avremo il lievito con cui far crescere il pane. Certo, l’esperienza di una persona molto vecchia, come me, nata nel 1917, è molto differente dall’esperienza dei giovani d’oggi. Domando spesso, ai professori delle scuole superiori, la possibilità di parlare direttamente ai loro studenti, e dico loro: “voi non avete le stesse ragioni evidenti per impegnarvi”. Per noi, resistere significava non accettare l’occupazione tedesca, la sconfitta. Era, relativamente, semplice. Semplice come quello che è venuto dopo, la decolonizzazione. Poi la guerra d’Algeria. Occorreva che l’Algeria diventasse indipendente, era evidente. Per quanto riguarda Stalin, abbiamo tutti applaudito la vittoria dell’Armata rossa contro i nazisti, nel 1943. Ma già quando siamo venuti a conoscenza dei grandi processi staliniani del 1935, e anche se occorreva mantenere un orecchio aperto verso il comunismo per controbilanciare il capitalismo americano, la necessità di opporsi a questa forma insopportabile di totalitarismo s’imponeva con evidenza. La mia lunga vita mi ha regalato una sequenza di ragioni per indignarmi.

E queste ragioni sono nate più da un’emozione che da una volontà d’impegnarsi. Il giovane “normalista” che ero, era stato già “marchiato” da Sartre, un compagno di studi con qualche anno di più. “La nausea”, “Il Muro”, ma non “L’essere e il nulla”, sono stati molto importanti nella formazione del mio pensiero. Sartre ci ha insegnato a pensare la nostra responsabilità di esseri umani sociali: “Voi siete responsabili in quanto individui”. Era un messaggio libertario. La responsabilità dell’uomo in quando individuo dotato di una capacità di giudizio che non può essere delegata ad un potere o ad un dio. Al contrario, occorre proprio impegnarsi in nome della responsabilità di persona umana. Quando io sono entrato a l’Ecole normale di rue d’Ulm, a Parigi, nel 1939, vi sono entrato come fervente discepolo del filosofo Hegel, e seguivo il seminario di Maurice Merleau-Ponty. Il suo insegnamento esplorava l’esperienza concreta, quella del corpo e delle sue relazioni con il senso, grande singolare faccia a faccia con il plurale dei sensi. Ma il mio ottimismo naturale, che vuole che tutto quello che sia auspicabile sia possibile, mi portava, piuttosto, verso Hegel. L’hegelismo, infatti, interpreta la lunga storia dell’umanità come avente un senso: è la libertà dell’uomo che progredisce passo passo. La storia è fatta di “shocks” successivi, è la messa in conto delle sfide. La storia delle società progredisce, e alla fine, avendo raggiunto l’uomo, la sua completa libertà, abbiamo lo Stato democratico nella sua forma ideale.

Esiste, certo, un’altra concezione della storia. I progressi ottenuti per mezzo della libertà (assoluta), la competizione, la corsa al “sempre di più”: questa può essere vissuta come un uragano distruttore. Ed è così che la rappresenta un amico di mio padre, l’uomo che ha condiviso con lui il compito di tradurre in tedesco “A’ la recherce du temps perdu” di Marcel Proust. Si tratta del filosofo tedesco Walter Benjamin. Aveva tratto un messaggio pessimista da un quadro di Paul Klee, l’ “Angelus Novus” dove la figura dell’angelo apre le braccia come per contenere e respingere una tempesta che lui identifica con il progresso. Per Benjamin, che, per sfuggire il nazismo, si suiciderà nel 1940, il senso della storia è il cammino irresistibile di catastrofe in catastrofe.

L’indifferenza: l’atteggiamento peggiore

E’ vero, le ragioni per indignarsi possono essere, oggi, meno nette o il mondo può sembrare più complesso. Chi comanda ?, chi decide ? Non è sempre facile distinguere tra tutte le correnti che ci governano. Non ci sono più affari decisi solo da una piccola elite di cui comprendiamo chiaramente le azioni. E’ un mondo vasto, che noi capiamo bene essere interdipendente. Viviamo calati all’interno di un’interconnettività come mai si era visto. Ma in questo mondo, ce ne sono di cose insopportabili. Per vederle occorre guardare bene, cercare. Dico ai giovani: se cercate un po’, troverete. L’atteggiamento peggiore è l’indifferenza, dire “io non posso fare niente, me ne lavo le mani”. Comportandovi così, perdete uno dei principali componenti umani. Un componente indispensabile: la facoltà d’indignarsi e l’impegno che ne è la conseguenza.

Si possono già identificare due grandi nuove sfide:
1.   l’immenso scarto che esiste tra i più poveri ed i più ricchi e che non smette di crescere. E’ un’innovazione dei secoli XX° e XXI°. Oggi, i più poveri guadagnano appena due dollari al giorno. Non si può lasciare che questo scarto cresca ancora. Da sola, questa constatazione dovrebbe stimolare l’impegno.
2.   I diritti dell’uomo e lo stato del pianeta. Ho avuto la fortuna, dopo la Liberazione, di partecipare alla redazione della Dichiarazione universale dei diritto dell’uomo adottata dall’ONU, il 10 dicembre 1948, a Parigi, al Palais de Chaillot. Io, insieme ad altri, ho potuto partecipare alla redazione di questa Dichiarazione, su indicazione di Henri Laugier, segretario generale aggiunto dell’ONU e segretario della Commissione dei Diritti dell’uomo. Non posso dimenticare, nella sua elaborazione, il ruolo di Renè Cassin, commissario nazionale alla Giustizia ed all’Educazione del governo della Francia libera, a Londra, nel 1941, premio Nobel per la pace nel 1968, ne quello di Pierre Mendes France in seno al Consiglio economico e sociale al quale erano sottoposti i testi da noi elaborati prima di essere esaminati dalla Terza commissione dell’assemblea generale, competente per le questioni sociali, umanitarie e culturali. La Commissione era composta da tutti i paesi membri delle Nazioni Unite (allora cinquantaquattro) ed io ricoprivo il ruolo di segretario. Ed è proprio a Renè Cassin che noi dobbiamo il termine di diritti “universali” e non “internazionali” come proponevano i nostri amici anglosassoni. Perché è proprio questo il problema scaturito dalla seconda guerra mondiale: emanciparsi dalle minacce che il totalitarismo ha fatto pesare sull’umanità. Per emanciparsene, era necessario ottenere che gli Stati membri dell’ONU s’impegnassero a rispettare questi diritti universali. Ed è questo il solo modo per invalidare il pretesto  della piena sovranità che uno Stato potrebbe far valere nel momento in cui siano denunciati dei crimini contro l’umanità commessi sul suo territorio. Fu il caso di Hitler che si stimava capo supremo presso la propria nazione ed autorizzato, quindi, a commettere un genocidio. La Dichiarazione universale deve molto alla (forte) ripulsa universale verso il nazismo, il fascismo, il totalitarismo e anche, attraverso la nostra presenza, allo spirito della Resistenza. Sentivo che occorreva fare in fretta, per non essere beffati dall’ipocrisia che c’era tra l’adesione proclamata dai vincitori a questi valori che nessuna aveva intenzione di promuovere lealmente e che noi tentavamo di imporre loro.

Non resisto alla voglia di citare due articoli della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo, l’articolo 15: “Ogni individuo ha diritto ad una nazionalità” e l’articolo 22: “Ogni persona, come membro della società, ha diritto alla Previdenza sociale; essa è istituita allo scopo di ottenere il soddisfacimento dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità ed al libero sviluppo della sua personalità, grazie allo sforzo nazionale ed alla cooperazione internazionale, tenuto conto dell’organizzazione e delle risorse di ogni paese”. E anche se la Dichiarazione ha solo una portata dichiarativa e non giuridica, non per questo non ha giocato un potente ruolo a partire dal 1948; abbiamo visti dei popoli colonizzati servirsene nella loro lotta per l’indipendenza; essa ha seminato gli spiriti nella loro lotta per la libertà.

Constato, con piacere, che nel corso degli ultimi decenni si sono moltiplicate le ONG, i movimenti sociali come ATTAC (Association pour la taxation des transactions financieres), la FIDH (Federation internazionale des Droits de l’homme), Amnesty … che sono attive e (molto) rappresentative. E’ evidente che per essere efficaci, oggi, occorre agire in rete, approfittando di tutti i moderni mezzi di comunicazione.

Ai giovani, dico: guardatevi intorno, vi troverete i temi che giustifichino la vostra indignazione – il trattamento riservato agli immigrati, alle persone straniere senza permesso di soggiorno, ai Rom. Troverete delle situazioni concrete che vi condurranno a dare corso ad una forte azione cittadina. Cercate e troverete !

La mia indignazione a proposito della Palestina

Oggi, la mia principale indignazione concerne la Palestina, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania. Questo conflitto è la sorgente stessa dell’indignazione. Occorre assolutamente leggere il rapporto Richard Goldstone del settembre 2009 su Gaza, nel quale questo giudice sudafricano, ebreo, che si dice anche sionista, accusa l’esercito israeliano d’aver commesso degli “atti assimilabili a crimini di guerra e forse, in alcune circostanze, a dei crimini contro l’umanità” durante l’operazione “Piombo fuso” che è durata tre settimane. Io stesso sono ritornato a Gaza, nel 2009, dove sono potuto entrare, con mia moglie, grazie ai nostri passaporti diplomatici, per analizzare “de visu” quello che il rapporto diceva. Le persone che ci accompagnavano non sono state autorizzate ad entrare né nella Striscia di Gaza nè in Cisgiordania. Abbiamo anche visitato i campi dei rifugiati palestinesi, realizzati, a partire dal 1948, dall’agenzia della Nazioni unite, l’UNRWA, dove più di tre milioni di Palestinesi cacciati dalle proprie terre dallo stato di Israele, aspettano un ritorno sempre più problematico. Per quanto riguarda Gaza, è una prigione a cielo aperto per un milione e mezzo di Palestinesi. Una prigione dove si sono organizzati per sopravvivere. Più che le distruzioni materiali, come quella dell’ospedale della Croce Rossa da parte di “Piombo fuso”, nella nostra memoria è rimasto il comportamento degli abitanti della Striscia, il loro patriottismo, il loro amore per il mare e per le spiagge, la loro costante preoccupazione del benessere dei propri bambini, innumerevoli e ridenti. Siamo rimasti impressionati dalla loro ingegnosità nel fronteggiare tutte le penurie che sono loro imposte. Li abbiamo visti confezionare dei mattoni di cemento per ricostruire le migliaia di case distrutte dai carri armati. Ci hanno confermato di aver avuto millequattrocento morti – donne, bambini, vecchi residenti nei campi palestinesi – nel corso dell’operazione “Piombo fuso” condotta dall’esercito palestinese, contro soltanto cinquanta feriti dalla parte israeliana. Appoggio le conclusioni del giudice sudafricano. Che degli Ebrei possano compiere, loro stessi, dei crimini di guerra, è insopportabile. Ahimè, nella storia ci sono stati pochi esempi di popoli che prendano lezione dalla loro stessa storia.

Lo so, Hamas, che ha vinto le ultime elezioni legislative, non ha potuto evitare che dei razzi siano inviati sulle città israeliane in risposta alla situazione di isolamento e di blocco in cui si trovano a vivere gli abitanti della Striscia di Gaza. Penso, evidentemente, che il terrorismo è inaccettabile, ma occorre riconoscere che quando il proprio territorio è occupato con mezzi militari infinitamente superiori ai propri, la reazione popolare non può che essere non-violenta.

Ad Hamas, serve inviare dei razzi sulla città di Sdérot ? No. Questi atti non servono alla causa, ma possiamo spiegare questo gesto con l’esasperazione degli abitanti della Striscia di Gaza. Nella nozione di esasperazione, occorre comprendere la violenza come la deplorevole conclusione di situazioni inaccettabili per chi le subisce. Allora, possiamo dire che il terrorismo è una forma di esasperazione. E che questa esasperazione è un termine negativo. Non bisogna esa-sperare, occorre sperare. L’esasperazione è la negazione della speranza. E’ comprensibile, potrei anche dire che è naturale ma, comunque, non è accettabile. Perché non permette di ottenere i risultati che potrebbe produrre la speranza.

La non-violenza, il cammino che dobbiamo imparare a seguire

Sono convinto che il futuro appartiene alla non-violenza, alla conciliazione tra culture differenti. E’ attraverso questa strada che l’umanità dovrà superare la sua prossima tappa. E là, raggiungo Sartre, non posso scusare i terroristi che buttano le bombe, li posso comprendere. Sartre scrive nel 1947: “Riconosco che la violenza, sotto qualsiasi forma si manifesti, è un insuccesso. Ma è un insuccesso inevitabile perché noi viviamo in un universo violento. E se è vero che il ricorso alla violenza genera altra violenza che rischia di perpetuarla, è pure vero che è l’unico mezzo per farla cessare”. A cui aggiungerei che la non-violenza è un mezzo più sicuro per far cessare la violenza. Non si possono sostenere i terroristi come Sartre ha fatto in nome di questo principio durante la guerra d’Algeria o nel momento dell’attentato dei giochi di Monaco del 1972, contro atleti israeliani. Questo non è efficace e Sartre stesso finirà per interrogarsi, alla fine della sua vita, sul senso del terrorismo e a dubitare della sua ragione d’essere. Dirsi “la violenza non è efficace”, è molto più importante del sapere se occorre condannare, o no, quelli che vi si sono abbandonati. Il terrorismo non è efficace. Nella nozione di efficacia, occorre una speranza non-violenta. Se esiste una speranza violenta, è nella poesia di Guillaume Apollinaire: “Come la speranza è violenta”; non in politica. Sartre, nel marzo 1980, a tre settimane dalla sua morte, dichiarava: “Occorre cercare di spiegare perché il mondo di oggi, che è orribile, non è che un momento nel lungo sviluppo storico, che la speranza è sempre stata una delle forze dominanti delle rivoluzioni e delle insurrezioni, e come io senta ancora la speranza come la mia concezione per il futuro”.

Occorre comprendere che la violenza gira la schiena alla speranza. Occorre preferirle la speranza, la speranza della non-violenza. E’ il percorso che noi dobbiamo imparare a seguire. Sia dalla parte degli oppressori che da quella degli oppressi, occorre arrivare ad una trattativa per far sparire l’oppressione; è questo che permetterà di non avere più la violenza terroristica. E’ per questo che non bisogna lasciare troppo accumulare l’odio.

Il messaggio di un Mandela, di un Martin Luther King trova tutta la sua pertinenza in un mondo che ha superato il confronto tra le ideologie ed il totalitarismo conquistatore. E’ un messaggio di speranza per la capacità delle società moderne di superare i conflitti attraverso una mutua comprensione ed una vigilante pazienza. Per arrivarci, occorre basarsi sui diritti, la cui violazione, chiunque ne sia l’autore, deve provocare la nostra indignazione. Non possiamo transigere su questi diritti.

Per un’insurrezione pacifica
Ho notato – e non sono stato il solo – la reazione del governo israeliano nei confronti del fatto che, ogni venerdì, i cittadini di Bil’in vanno, senza gettare delle pietre, senza utilizzare la forza, fino al muro contro il quale protestano. Le autorità israeliane hanno qualificato questa marcia come “terrorismo non-violento”. Non male … Solo un israeliano poteva qualificare come terrorismo la non-violenza. Bisogna, soprattutto, essere imbarazzati per l’efficacia della non-violenza che vuole solo suscitare l’appoggio, la comprensione, il sostegno di tutti coloro che, nel mondo, sono gli avversari dell’oppressione.

Il pensiero produttivista, portato dall’Occidente, ha trascinato il mondo in una crisi da cui occorre uscire con una rottura radicale con la fuga in avanti del “sempre di più”, nell’ambito finanziario così come in quello delle scienze e delle tecniche. E’ ormai tempo che divenga prevalente il pensiero etico, di giustizia, di equilibrio durevole. Perché ci minacciano rischi più grandi. Possiamo mettere fine all’avventura umana su un pianeta che essa stessa renda inabitabile per l’uomo.

Ma resta vero che importanti progressi sono stati fatti dal 1948: la decolonizzazione, la fine della segregazione razziale, la distruzione dell’impero sovietico, la caduta del Muro di Berlino. Invece, i primi dieci anni del XXI° secolo sono stati un periodo di declino. Questo declino, che io spiego, in parte, con la presidenza americana di Gorge Bush, l’11 settembre e le disastrose conseguenze che ne hanno tratto gli Stati Uniti come l’intervento militare in Irak. Abbiamo avuto questa crisi economica, ma non abbiamo ancora iniziato una nuova politica di sviluppo. Similmente, il vertice di Copenhagen contro il riscaldamento climatico non ha permesso di ingaggiare una vera politica per la preservazione del pianeta. Noi, ora, siamo al limitare tra gli orrori del primo decennio e le possibilità dei decenni seguenti. Ma bisogna sperare, occorre, sempre, sperare. Il decennio precedente, quello degli anni ’90, è stato origine di grandi progressi. Le Nazioni unite hanno saputo convocare delle conferenze come quelle di Rio sull’ambiente, nel 1992; quella di Pechino sulle donne, nel 1995; nel settembre del 2000, per iniziativa del segretario generale delle Nazioni unite, Kofi Annan, i 191 paesi membri hanno adottato la dichiarazione sugli “Otto obiettivi del millennio per lo sviluppo”, in cui ci si impegna a ridurre alla metà la povertà nel mondo entro il 2015. Il mio grande rimpianto, è che né Obama né l’Unione europea non abbiano ancora manifestato quella che dovrebbe essere il loro apporto per una fase costruttiva, appoggiandosi sui valori fondamentali.

Come concludere questo appello ad indignarsi ? Ricordando ancora che, nell’occasione del sessantaseieseimo anniversario del Programma del Consiglio della Resistenza, l’8 marzo 2004, noi, i veterani dei movimenti di Resistenza e delle forze combattenti della Francia libera (1940-45), diciamo che, certo, “il nazismo è vinto, grazie al sacrificio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle della Resistenza e delle Nazioni unite contro le barbarie fasciste. Ma questa minaccia non è totalmente sparita e la nostra collera contro l’ingiustizia è sempre intatta”

No, questa minaccia non è totalmente sparita. Così, chiamamoci sempre ad “una vera insurrezione pacifica contro i mezzi di comunicazione di massa che non propongono, come orizzonte per la nostra gioventù, il consumo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione ad oltranza di tutti contro tutti”.

A quelle ed a quelli che faranno il XXI° secolo, noi diciamo, con tutto il nostro affetto:


“Creare, è resistere.
Resistere, è creare.”



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